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Il concordato minore è una procedura prevista dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, utile a chi ha accumulato debiti per delle rate non pagate.
Anche a fronte di rate non saldate, non bisogna disperare. Esistono strumenti di tutela del consumatore che, almeno in teoria, consentono di trovare una via d’uscita. Il D. Lgs. n. 14/2019, meglio noto come Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ha introdotto per esempio la fattispecie del concordato minore. Una strategia pensata per supportare i soggetti sovraindebitati per avviare una ristrutturazione dei propri debiti. Ed evitare la liquidazione forzata.
Tale possibilità si rivolge ai piccoli imprenditori, ai professionisti e alle start-up. Ovvero a soggetti che, dopo un investimento relativo a un progetto produttivo, hanno bisogno di rimodulare i debiti attraverso un piano approvato dai creditori e omologato dal tribunale, per evitare la liquidazione forzata.
La procedura coinvolge un organismo di composizione della crisi (meglio noto come OCC) per la mediazione e la redazione di un piano di ristrutturazione. E, una volta omologato, il piano va inteso come vincolante sia per il debitore che per i creditori. Si tratta dunque di una procedura con valenza finanziaria e legale. E non va confusa con il consolidamento debiti, che invece concerne solo l’ambito finanziario.
Il consolidamento va infatti inteso come un processo bancario e non giuridico. Una strategia per ridurre l’onere mensile delle rate, accorpando vari debiti tramite una rinegoziazione del prestito. Se il concordato minore si rivolge a imprenditori e start-up, il consolidamento è invece sfruttabile in genere da consumatori privati. In pratica, singoli o famiglie che hanno accumulato debiti con prestiti, carte di credito oppure mutui.
Il concordato minore è disciplinato dagli articoli 74 e seguenti del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. E, oltre a essere disponibile per piccoli imprenditori, professionisti, imprenditori agricoli e start-up innovative, tutela anche soggetti non fallibili, meglio definiti dall’art. 2 del citato codice. Va dunque escluso dai beneficiari possibili il semplice consumatore, che comunque può accedere ad altre procedure di sovraindebitamento.
La normativa richiede che il piano sia vantaggioso per i creditori rispetto alla liquidazione. E che il debitore agisca con diligenza. Vale a dire che il piano di rimodulazione del debito deve offrire ai creditori un recupero economicamente superiore rispetto a quello che otterrebbero con la liquidazione forzata dei beni del debitore. Quindi, se in teoria con la liquidazione il creditore aveva previsto di poter recuperare il 30% o il 40% dei soldi offerti al richiedente, il piano deve garantire ai creditori una percentuale di soddisfazione superiore, come per esempio il 50%.
Infine, è richiesto che debba essere il debitore a presentare un piano di rientro. Una strategia fattibile e soprattutto basata su dati realistici e completi. Per farlo deve dare sia al tribunale che al creditore tutte le informazioni possibili sul piano economico, patrimoniale e finanziario. Deve poi dimostrare trasparenza e buona fede.
Ecco perché il debitore dovrà raccogliere tutti i dati utili a dimostrare di non voler abusare dalla procedura. E in pratica dovrà fornire tutti i bilanci e le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni e un elenco dei creditori con cui ha rapporti, con importi dovuti e cause di prelazione.
Come si richiede? Bisogna rivolgersi a un OCC, ovvero a un ente autorizzato in grado di assistere il richiedente nella gestione della pratica. La lista dei referenti validi è presente sul sito del Ministero della Giustizia.
Esperto di economia e finanza con una competenza consolidata nella redazione di articoli su temi economici, fiscali e finanziari.
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